Licenza P-etica

I due articoli usciti sul NEJM di questo mese chiariscono i concetti che alla base della metodologia della ricerca clinica e meritano pertanto di essere citati qui perché applicabili anche alla trapiantologia clinica, rappresentando una sorta di licenza poetica.

L’ottenimento di un p-value statisticamente significativo rappresenta uno dei maggiori obiettivi per chi fa ricerca clinica, e non solo. Tale significatività è sancita da valori inferiori al tradizionale cut-off di 0.05: il che vuol dire, in termini semplificati, che se si osserva una differenza tra due gruppi di pazienti con un p-value di 0.03, la probabilità che tale differenza sia dovuta esclusivamente al caso (e quindi non all’effetto dell’intervento in uno dei due bracci, ad esempio) è il 3%. I due articoli usciti sul NEJM di questo mese (1,2) chiariscono i concetti che alla base della metodologia della ricerca clinica e meritano pertanto di essere citati qui perché applicabili anche alla trapiantologia clinica, rappresentando una sorta di licenza poetica.

Il primo articolo (1) si focalizza sull’interpretazione di uno studio clinico quando l’obiettivo primario di un trial fallisce, mentre il secondo (2) su come interpretare i dati quando l’obiettivo è raggiunto. Nel primo caso, vi sono una serie di domande che il lettore deve porsi, tra cui: a) esistono segnali di un beneficio clinico, pur essendo il p-value >0.05? b) il sample non è stato adeguato in termini numerici? c) l’obiettivo primario è stato definito correttamente? d) alcuni obiettivi secondari sono soddisfatti? Il senso di queste domande è quello di sezionare lo studio e trarre dai dati i messaggi a 360°. Nel caso in cui il p-value è statisticamente significativo (2), ci si devono porre dei quesiti finalizzati a comprendere quanto siano clinicamente significativi i risultati, poiché le due cose non sempre coincidono. E gli autori citano esempi di trials in cui il soddisfacimento dell’obiettivo primario non ha poi portato all’adozione della terapia, per una serie di motivi tra cui per esempio una tossicità eccessiva del nuovo farmaco a fronte di un beneficio clinico modesto, oppure la “non consistenza” dell’outcome definito nel trial rispetto ai reali bisogno clinici. Gli esempi citati in entrambi gli articoli riguardano il campo della cardiologia ma possono essere traslati senza difficoltà nel nostro campo trapiantologico.

Gli elementi citati in questi due articoli fanno parte della pratica clinica nella misura in cui si integrano con l’esperienza clinica. Non a caso la definizione di evidence-based medicine richiama sia l’evidenza ottenuta dalla ricerca clinica sia l’esperienza clinica individuale (3)