Errare humanum est...

I ricercatori dell’Università di Stantford riportano che nel 18.8% dei pazienti deceduti e sottoposti a riscontro autoptico dopo un trapianto di cellule staminali emopoietiche tra il  2000 e il 2017 l’infezione sospettata come causa di morte non era corretta e che nel 75% di questi casi la diagnosi corretta avrebbe potuto cambiare la gestione e il trattamento dei pazienti.

Parlare di errori in medicina evoca processi e gogna mediatica. Anche la recente diffusione della cultura degli accreditamenti e del rischio clinico in sanità non ha portato in modo pervasivo a cambiare una mentalità radicata che considera l’errore un fatto eccezionale da evitare ed eventualmente da sorvolare rapidamente. La realtà dei fatti è invece che gli errori fanno parte della realtà quotidiana della pratica medica, non sono per lo più “colpa” del singolo ma dell’organizzazione del lavoro e della struttura e sono visibili con la lente dell’onestà intellettuale e della revisione critica. Soprattutto gli errori sono un’occasione imperdibile per migliorare le conoscenze, l’organizzazione e l’esito del lavoro in sanità. I ricercatori di Standford fanno degli errori addirittura un oggetto di ricerca e pubblicazioni scientifica confrontando le diagnosi cliniche di morte di 185 pazienti sottoposti a trapianto di cellule staminali emopoietiche (oltre 80% trapianto allogenico da donatore) nel periodo 2000-2017 con gli esiti autoptici e valutando se la corretta diagnosi avrebbe potuto modificare la gestione e il trattamento dei pazienti (criteri di Goldman per la classificazione delle discrepanze delle autopsie).

Multani et al, Blood Advances 2019:3 (22);3602-3612

35/185 pazienti (18.8%) sottoposti ad autopsia dopo trapianto avevano un totale di 41 infezioni non riconosciute, 43.9% virali, 39% fungine,12.2% batteriche, 4.9% parassitarie. 5 pazienti hanno presentato più di una infezione non diagnosticata. Il decesso dei pazienti era avvenuto ad una mediana di 3 mesi dal trapianto. Solo il 10% degli oltre 2000 pazienti deceduti dopo il trapianto nello stesso periodo ha ricevuto un’autopsia e la percentuale è in netta riduzione negli anni più recenti (3.9% nel 2017). Le sedi anatomiche più frequenti di infezione erano per lo più multiple e disseminate, seguite dai polmoni e dal tratto gastroenterico. I virus più frequentemente non diagnosticati erano CMV ed Adenovirus , tra i funghi Candida ed Aspergillus species, tra i batteri Enterococchi e Stafilococcus aureus , mentre i parassiti erano rappresentati da 1 caso di Toxoplasmosi multiorgano e uno infezione disseminata da Strongiloides Stercoralis. Sono presentati e discussi 3 casi clinici , affiancati dalla “lezione che insegnano”: un caso di infezione disseminata da virus varicella-zoster che suggerisce la revisione delle sierologie pre-trapianto di paziente e donatore e delle profilassi prescritte e la loro aderenza; un caso di coccidiomicosi che pone il problema della bassa sensibilità del lavaggio broncoalveolare; un caso di strongiloides disseminato che avrebbe potuto essere sospettato in base all’esposizione pretrapianto del paziente, un veterano di guerra in aree endemiche. Il 75% di queste infezioni non diagnosticate se non al tavolo autoptico rientra nella I classe di Goldman, ovvero se fossero state riconosciute, avrebbero potuto essere gestite e trattate, cambiando forse la sopravvivenza dei pazienti.

Questo studio ci dimostra che le autopsie danno informazioni importanti che possono aiutare a migliorare la pratica clinica e l’outcome dei pazienti immunocompromessi, che sono suscettibili ad un’ampia gamma di agenti infettivi, anche multipli, con quadri clinici di complessa interpretazione e con limitazioni nella diagnostica, per le comorbilità e la frequente citopenia concomitante. Più in generale, lo studio insegna che “errare è umano” ma sarebbe “diabolico” non revisionare la propria casistica in modo critico allo scopo di mettere in atto i processi di miglioramento.